sabato 13 febbraio 2016

I Ramones a Sanremo.










L'11 settembre del 1980 vidi qui a Sanremo il primo concerto della mia vita. In una specie di cortile a bordo strada, impreziosito da due canestri da basket, suonavano i Ramones. Fu un concerto breve, come tutti quelli che hanno sempre fatto: inevitabile per chi teneva una media di due concerti a settimana. Il mio amico Eugenio vomitò anche per il troppo rumore. Questo forse mi vale come bonus-perdono per essere qui oggi, o forse è solo un'aggravante. Molti amici - preoccupati per la mia presenza al Festival - mi chiedono come sta andando. Gli rispondo qui.











La mia trasferta è iniziata nel peggiore dei modi: dimenticando il Mac ai controlli del gate. Disattenzione? No. Solo parte di un disegno superiore. È stato voluto che io passassi questi cinque giorni sanremesi senza altre distrazioni che il Festival. Privarmi del Mac era un piano che nemmeno il diavolo avrebbe potuto concepire, quindi ci ho pensato io da solo. Questo post è infatti interamente scritto con il pollice, i font sono sbagliati e le foto probabilmente mal dimensionate.




Ho così visto tutte le esibizioni del festival, anche perché il giorno dopo avrei dovuto parlarne ai Sociopatici su Radio2. In pratica sono passato dal totale snobismo di questi anni alla full immersion. Dal pass per il Primavera acquistato già a novembre, a quello per i Fiori. Punito per troppo Hipsterismo, e quindi condannato alle Ufoface con Cristina D'Avena. 












Ma almeno lei è famosa: perché la cosa più faticosa di lavorare qualche giorno in questo mondo è che che non riconosci praticamente nessuno. Personaggi diventati celebri nell'arco di pochi mesi, per via di un video o di una canzone, che devi intervistare, ma non hai mai sentito nominare prima. Come ad esempio loro:









(Su Wikipedia probabilmente)




Per fortuna sono in tanti nelle tue condizioni. Davanti agli alberghi stazionano gruppi di ragazzine under 15, e se provi a chiedere come ho fatto io: "per chi siete qui?" spesso la risposta è: "non lo so". Piove. Abbondano i sosia e i freaks. Di Pavarotti, Michael Jackson, Liz Taylor, Valeria Marini (ma forse lei è vera). Sulle strade adiacenti all'Ariston gli altoparlanti diffondono musica italiana, e la sensazione è la stessa identica di quando con tua figlia andavi a Disneyland, e c'era musica ovunque. La musica di Topolino, tutto il giorno, ovunque. Quella era allegra, questa è anche triste. Le canzoni italiane sono sempre tristi. Autoflagellazioni amorose per non farti vedere l'ora di scendere dal tuo taxi. 













Allora ti rifugi nella sala stampa, che come avevo letto da qualche parte assomiglia a una grande nave da crociera, probabilmente meno trash. Forse questo transatlantico è il luogo più sobrio di tutto il Festival, a parte qualche scalmanato che si alza in piedi per applaudire Rocco Hunt o Elio o esulta al gol di Zaza. Penso spesso a Elio e gli Elii, che ho pure intervistato: come fanno a non soffrire a Sanremo? Forse per questo anche qui vanno in giro in "motoretta"; è un mezzo che ti dà la sensazione di poter scappare per sempre svoltando in un vicolo





Dopo il mio programma mi avvio a piedi verso l'hotel. Stamattina quando sono uscito c'era uno che consegnava alla reception una mozzarella di bufala, raccomandando di non metterla in frigo. 












Non fa ancora buio, e costeggio il mare nella bella stradina in salita che mi attende. Penso che nel 1980, quando i Ramones si sono fermati qui, erano già famosi da un pezzo. Nel '78 o '79 nei loro tour non uscivano praticamente mai dallo stato di NY. Ignoro cosa li spinse allora in quel campetto da basket a poche centinaia di metri da qui. Cerco notizie in rete, ma invano. 







L'unica cosa che trovo è questo meme:









Capisco quindi tutto di quella loro mossa del 1980. Non erano drogati, né impazziti. Solo molto confusi.



Elvis has left the building, e io ho quasi left Sanremo.










venerdì 18 dicembre 2015

Arrested.


Martin Skreli, l'uomo più odiato d'America, che avrebbe potuto diventare una star di Hollywood solo recitando la parte del ragazzo odioso in qualsiasi film, e che invece è diventato un miliardario sempre odioso speculando su un farmaco essenziale per i malati di AIDS  portando il costo delle pillole da 13$ a 750$ ognuna, e successivamente  balzato alla cronaca per avere acquistato per 2 milioni  la copia unica del disco dei Wu Tang Clan all'asta (idea di RZA e Wu Tang Clan), è stato da poco arrestato per frode fiscale. Tutti i miliardari giovani americani - si sappia - portano felpa e cappuccio. Possibile trattamento di sfavore in carcere previsto, fino al pagamento della cauzione. 






Elvis has left the building.

giovedì 17 dicembre 2015

Beethoven era nero?





Uno studio si chiede: Beethoven era nero? E in una deriva investigativa forse anche eccessiva arriva a chiedersi: e di che colore era sua sorella? 

La possibilità che Beethoven avesse connotati africani viene riportata da varie fonti, e da vari anni, anche abbastanza seriamente, sebbene con sfumature quasi razziste. Qua e là si citano "i suoi capelli spessi e crespi", "la sua carnagione scura", o il fatto che la sua dimora a Vienna venisse chiamata la "Casa dello Spagnolo Nero". La sua cartella clinica di morte evidenzia un grosso naso schiacciato, cosa che nei suoi busti non avevamo mai notato.


Un po' del suo sangue certamente era spagnolo. La famiglia di Beethoven, da parte di mamma,  fa risalire le sue radici nelle Fiandre, per qualche tempo sotto la dominazione spagnola monarchica, e poiché la Spagna ha mantenuto un collegamento storico con il Nord Africa attraverso i Mori, in qualche modo un unico germe di blackness dovrebbe essere arrivato fino al nostro amato Ludwig. 


Questa teoria che Beethoven discendesse dai Mori è riaffiorata per tutto il XX secolo. Lo storico giamaicano Joel Augusto Rogers (1880-1966) l'ha resa popolare in diversi scritti intorno la metà del secolo, ma la nascita del mito può essere fatta risalire ulteriormente a circa 1915 o anche prima.

In verità le possibilità che Beethoven fosse black, come leggiamo in questo lungo e attento studio, sono molto remote. Ma di sicuro è affascinante la teoria secondo cui nella sua musica la radice nera è presente. 
La Sonata No.32 in do minore, 111, "suonerebbe come la genesi del jazz". E il basso sincopato della sonata Waldstein "potrebbe avere ispirato la musica gospel". 
Di questo aspetto si discute bene qui, (un sito chiamato Beethovenwasafrican) dove c'è anche un invito ad ascoltare la Sonata 17 "Tempesta"suonata in modo meno tradizionale e classico. Un allegretto molto poco africano secondo noi ma abbastanza Disbanded. Proprio nel giorno in cui il Doodle di Google è dedicato al suo sosia. Quello bianco.


Elvis has left the building. 

lunedì 28 aprile 2014

Siamo in fondo al corridoio, prima stanza a destra.






Ted Disbanded da oggi è su Wordpress.
Salutiamo dopo 7 anni la piattaforma Blogspot. Il blog da oggi lo trovate qui.
(Le ragioni di questo cambiamento sono legate a motivi tecnici troppo noiosi da spiegare).
Se per qualche ragione avevate inserito Ted Disbanded tra i vostri bookmarks, vi suggeriamo di aggiornare la vostra lista con il nuovo indirizzo. Il blog resta quello di sempre: a singhiozzo, con tutti i vecchi post al loro posto, senza sponsor, e quasi senza commenti (i motivi ce li spiega bene qui Wired, ma in sostanza nessuno commenta più i blog, visto che è più comodo farlo direttamente dai social network. Questa la scusa ufficiale).
In ogni caso ora finalmente possiamo dire che

Elvis has left the building.

giovedì 19 dicembre 2013

Tu uccidi un uomo morto.

Si può uccidere un uomo morto? Si può. Ecco, presi da Wikipedia, alcuni esempi di esecuzioni postume. Persone che erano già decedute, ma sono state ugualmente ri-uccise, principalmente come atto simbolico o di giustizia. Uno dei casi più recenti e anche Disbanded è quello di Hermann Goring, gerarca nazista suicidatosi la notte prima dell'esecuzione con una pastiglia di cianuro fornita da un cacciatore texano (ecco perché è Disbanded), ma impiccato comunque in rispetto della sentenza di Norimberga. L'elenco comprende solo uomini e un Papa:  Papa Formoso.


Elvis has left the building. 

martedì 10 dicembre 2013

Svegliati nonno, si va in Turchia.


Le campagne pubblicitarie delle compagnie aeree sono sempre una categoria a parte: raccontano molto sia della compagnia, sia della bandiera che rappresentano. Prendiamo i due nuovi spot delle compagnie di bandiera turca e italiana. Mio nonno, scongelato dopo un'ibernazione di diciamo trent'anni, messo davanti a un televisore per la durata dei due spot e poi prontamente ricongelato, si troverebbe davanti a due prodotti opposti e a due comunicazioni distanti anni luce. Questa è la pubblicità della Turkish Airlines, da tre anni di fila premiata come migliore compagnia aerea d'Europa. Uno scenario quasi impensabile, quando il nonno si addormentò.


Sì, dovrei passare qualche ora a spiegargli cosa sia una selfie, chi siano Kobe e Messi, quali siano le economie emergenti, come la Turchia ce l'abbia fatta (anche se le restano i suoi problemi), e una serie di cose che alla fine capirebbe prima di tornare felice nel suo cubo di ghiaccio. Ma penso si divertirebbe perfino lui, e concorderebbe che volare con i turchi ha un suo perché. 


Nessuno sforzo invece dovrei fare per spiegargli la nuova campagna di Alitalia, perché qui tutto è rimasto come ai suoi tempi: congelato. Immagini al ralenty, sogni d'oro nelle poltrone-letto, bambini che toccano i pulsanti del pannello di controllo dell'aereo (forse anche il temibile "eject pilot"), fotografia color seppia, musica color-Coldplay. Insomma tre spot fatti con il pilota automatico, che ci pongono due o tre gradini sotto la Turchia, o quantomeno sotto la loro linea aerea nazionale. Peccato perché oltretutto una campagna vera come quella di Messi-Kobe è esportabile in tutto il mondo, con conseguente guadagno di immagine per tutto il Paese, mentre quella di Alitalia  non esporta nulla. Ma come avrete capito questo non è un post sulle campagne delle linee aeree. A me piacerebbe sentirmi moderno come i turchi, o come i francesi, ma evidentemente sono destinato a rimanere antico. Da noi tutto è rimasto com'era. Perché vedete come è fatto questo lavoro: quando te la passi bene giochi e scherzi con le selfie, ma quando le cose vanno male devi fare finta che tutto sia perfetto come un tempo. Scherzare diventa vietato, e il tono non può scendere di un millimetro. In Italia sta succedendo sempre più spesso, con conseguente impoverimento di chi è pagato per creare idee, ovvero tutte le agenzie e tutte le categorie che con le idee hanno a che fare.
Il grande equivoco è che non è necessario essere un paese ricco o una compagnia ricca per produrre una campagna corporate convincente. Ce ne sono di bellissime costate due soldi: i bravi creativi servono anche/proprio a questo. Non è nemmeno necessario scomodare Messi e Kobe.  Ma questi nostri spot (girati tra l'altro dagli spagnoli) sono la fotografia di un paese ormai disabituato a volare con la propria comunicazione istituzionale. Perché la patria del turismo deve esportare un prodotto così medio, rendendo in qualche modo di riflesso più povero anche me? La rivoluzione creativa (un programma di cui molto si parla in questi giorni, qui trovate il condivisibilissimo manifesto) parte proprio da questo: rendersi conto che un paese che produce belle idee in ogni campo, è un paese più ricco in ogni senso. Ai tempi di mio nonno la pensavano così, e si viveva molto meglio. 

Elvis has left the building.

mercoledì 4 dicembre 2013

Da Bill magazine su Alex Bogusky.





Un articolo commissionato da Bill magazine sul numero dedicato ad Alex Bogusky, on sale now! Per quei 3 o 4 che ancora non conoscessero la case history di Whopper Sacrifice.

"Il profumo a gusto hamburger, lo stesso che potete annusare in una qualsiasi metropolitana delle metropoli più incivilizzate, venne lanciato pochi mesi prima del Whopper Sacrifice. 
Si chiamava "Flame by BK", era in vendita a circa 4 dollari e andò subito a ruba, come tutte le provocazioni spiritose ma dal fiato volutamente corto. E che fiato. Un gioco, ma nemmeno tanto, che faceva capire che sul panino americano si può e si deve fare ironia. È un'icona importante anche sociologicamente (anni prima McDonald's puntava molto sul "pasto caldo per tutti" a meno di 1 dollaro), ma non è sacro. È solo pericolosamente buono. 
Ma era solo un piccolo antipasto di quello che accadde l'anno successivo, nel 2009.
La campagna Whopper Sacrifice fu storica per tanti motivi. Innanzitutto è considerata la campagna nativa del mezzo ad aver funzionato meglio nella storia di Facebook; creata aggirando i paletti del social network, per poi essere fermata quando la polpetta era stata già servita, rimane la case history più brillante del momento d'oro del social network (il 2009). Successo quindi difficilmente replicabile. È molto probabile che sappiate già tutti come funzionava l'operazione: se cancellavi dieci amici da Facebook, avevi in cambio un Whopper. Un hamburger al posto di dieci amici sacrificati, tutto questo attraverso una app da scaricare sul social network. Non male, visto che nessuno ti impediva in un secondo momento  di ri-aggiungere l'amico, oppure più semplicemente di disfarti di perfetti sconosciuti in nome del gusto irresistibile del panino. Insomma, esistono sacrifici più dolorosi. 
La campagna ebbe un successo proporzionale alla sua bellezza e irriverenza: più di 230.000 amici cancellati da circa 80.000 utenti, e oltre 23.000 coupon distribuiti per ritirare il Whopper. Ma soprattutto un successo tale che oggi siamo ancora qui a scriverne: i premi creativi ricevuti in giusta quantità impallidiscono rispetto alla portata reale di tutto il resto. La campagna chiedeva tra l'altro: "What do you love more, your friends or your Whopper?" Non era una domanda da poco, apparentemente. Significava sfidare il social network a casa sua, facendosi pubblicità sulle spalle di Mark Zuckerberg, proprio le sue. Ma il punto non era tanto quello. Ciò che indispettì il quartier generale di Menlo Park, California, era che gli amici cancellati ricevevano notifica dell'avvenuto sacrificio. L'onta era in qualche modo pubblica, a dispetto delle (sagge) regole di Facebook che evitano nella maggior parte dei casi le umiliazioni di piazza. E però proprio così l'operazione riceveva ancora più forza. Attaccandosi a questo punto fermo, i legali di Facebook ottennero la sospensione dell'operazione da parte di BK, senza nemmeno arrivare davanti ai giudici.  Tanto ormai la macchina era partita, e la campagna era già consegnata alla storia.
Ma forse la sua forza, a rivedere oggi tutta la meccanica, è stata un'altra. Quella di restituire alla parola "amico" il suo giusto significato. Un amico di Facebook, alla fine, non vale niente. Il suo valore è 37 centesimi, e per la prima volta ne veniva certificato il prezzo.  Non era quindi sbagliata la promozione, era sbagliata la parola. Non sono "friends" quelli che abbiamo su Facebook. Sono spesso perfetti sconosciuti, oppure conoscenti, fantasmi da sacrificare per un pretesto qualsiasi, potrebbe essere un polletto fritto di McDonald's o un Frappuccino di Starbucks. Ma le idee sono di chi le cuoce prima. E Bogusky fu il più veloce a cuocere il suo Whopper, per ingrassare ancora un po' e spezzare il suo skateboard per il troppo peso." (qui la case)

Elvis has left the building. 

mercoledì 27 novembre 2013

Le 17 comparse che non avranno mai più un contratto.




Ce ne sono alcune esilaranti, un paio incomprensibili e una (la 15) fuori luogo perché intenzionale.
Ma la galleria è super Disbanded e merita. (Via The Social Post)

Elvis has left the bulding. 

martedì 26 novembre 2013

Forse la più bella pubblicità sull'argomento violenze domestiche.



Si parla tanto di violenza sulle donne in questa settimana, e i muri delle nostre città sono pieni di manifesti che invitano a prendere posizione attiva sull'argomento. Ripescando tra le cose più belle che ogni tanto questa professione ci regala, ho trovato questa pubblicità radio norvegese che per me resta insuperata sull'argomento. Qui si pubblicizza un "numero rosa" o emergency line contro le violenze domestiche. A voi i brividi quando lui dice "I understand".

Elvis has left the building. 

lunedì 25 novembre 2013

Imbianchini Vs street artists: 5 a 0








Una cosa che ti aspetti accada in Italia per mano di Pisapia o Marino, e non a NYC. Uno dei luoghi sacri dei  murales, il 5Pointz del Queens, è stato interamente riverniciato dai proprietari dell'immobile, Jerry e David Wolkoff, che intendono trasformarlo in uffici e abitazioni. A nulla è servito il tentativo di dichiararlo luogo di interesse artistico nazionale. Dopo la caccia a Banksy e l'arresto di Space Invaders, la città che ha dato i natali al fenomeno dei graffiti soccombe miseramente come una Milano o Roma qualsiasi. Nel video da me girato due anni fa, una scolaresca visita 5Pointz. Qui invece come si presenta adesso con una bella mano di bianco.

Elvis has left the building.